Neanche il cielo può comprenderlo,
questo volermi consumare dove la
tua bocca è una stanza immobile.
Dove ogni affetto è una pretesa per
non smettere di ascoltare il tuo dolore.
Niente, più di te, è capace di spogliarmi
così a lungo. Di rubare la voce a quello
che continua -a bruciare, e non sa leggere
dentro i pozzi ruvidi dei desideri. E poi
esplodere, sulla fronte sudata, in cui le
mie stesse mani scappano.
Solo gli occhi lo sanno. Per questo
annegano ciò che guardano, quando
non ci sei. Sciogliendo persino il tempo
e il suo lamento, che t’immagina sorda
in questo mio trattenere la confusione del
sangue, fra il tramonto e l’ovulo di un nuovo
tormento.
Perché di tutti i sogni che ho indossato
soltanto tu m’hai resa un verbo.
Come fossi la sabbia di un cuore
d’argento, come l’inverno nei pugni
d’assenzio o il fiato che affonda le
braccia di un fiore.
E nel perdermi negli occhi del silenzio
io ti pronuncio le corolle che non ho
mai sbocciato, come fossi -di un bosco-
l’appiglio che profuma tra i cespugli
e la sabbia.
Solo per ricordarti che di soli petali
non vivo, e di sole radici non si disseta
la rugiada che ho nel petto.
Poiché bramo l’Amore e la tua bocca,
tra le braccia della mia gola e le carezze
delle tue giovani -erranti betulle.
Maria Grazia Vai & Paolo Amoruso
17agostoduemila13
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